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Sugli Smashing Pumpkins a Roma

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“Di tanto in tanto è bene controllare le cose che ci piacciono e quelle che non ci piacciono, per vedere se le nostre reazioni sono cambiate”, scrive Nicholson Baker nel romanzo Mezzanine. Il suo protagonista, Howie, sta salendo sulla scala mobile che lo porta a lavoro e si lascia andare a riflessioni e considerazioni e epifanie concentriche. Ecco, mentre gli Smashing Pumpkins – Billy Corgan, Jeff Schroeder, Nicole Fiorentino e Mike Byrne – suonavano lì all’ippodromo di Capannelle con gli aerei ben visibili in atterraggio verso Ciampino, nella polvere che si alzava e tra centinaia di smartphone e macchine digitali, con tutti quei ragazzi e ragazze (alcuni non più ragazzi/ragazze) con la maglietta ZERO, ripensavo a un po’ di cose: oltre, naturalmente, al fatto che un fulmine dovrebbe abbattersi su chiunque tira su il proprio iphone per immortalare pezzi di concerto che, sono sicuro, non rivedrà mai – perché la qualità audio è infima, perché metà schermo è occupato dalle teste di chi sta davanti – mentre chi sta dietro si limita a invocare il fulmine di cui sopra – e soprattutto perché ho come la sensazione che il 90% di chi registra pezzi di concerto conosca a malapena Disarm e Tonight Tonight. Fine del pensiero-snob e tanto sincero.

Pensavo, mentre Billy suonava con pose da guitar-hero – levando la chitarra in aria e suonandola con i denti, impennandola come un Jimmy Page: gli è sempre piaciuto, non è mai voluto passare per il portabandiera degli indierocker repressi d’America (e del resto nei bis ecco comparire una cover di Immigrant Song) – mentre suonava Quasar e Panopticon (dall’ultimo album Oceania, tutto sommato discreto) e Starz (dall’orrido Zeitgeist, malgrado la presenza del batterista Jimmy Chamberlin, legato a Corgan da un rapporto decennale di amicizia e incomprensioni), pensavo alla creatività; perché da quando ascolto musica mi sono sempre chiesto quanto dura. Quanto dura quello che si chiama talento, o mestiere, o ispirazione, o come volete chiamarlo: quella cosa che ti fa mettere in fila un certo numero di composizioni strabilianti – la mia riflessione esclude quasi tutti quegli artisti da una-canzone-e-via o da un-album-e-via.

Billy Corgan incarna molto bene questa mia ossessione. Ero convinto, quando ascoltavo a ripetizione Mellon Collie and the Infinite Sadness, Siamese Dream, Gish e Pisces Iscariot, che lui fosse (qualcosa come) immune dalla polverizzazione del talento: uno che scrive nello stesso disco canzoni come Stumbleine e Porcelina of the Vast Oceans, mi dicevo, non finirà mai – soprattutto se nell’album precedente ha infilato Luna e Mayonaise. Mi dicevo, la sensibilità non può finire così, di punto bianco. Ne abbiamo parlato, negli anni, tra amici, mentre invece ecco che la capacità di scrivere canzoni di Corgan appassiva a vista d’occhio, come se qualcuno stesse oscurando progressivamente un caleidoscopio. Ne parlavamo, mentre ascoltavamo ancora rapiti il rullo di tamburi che precede di un istante la partenza sinfonica di Tonight Tonight.

Abbiamo ascoltato Machina (l’ultimo vero disco dei Pumpkins e con vere canzoni Pumpkins: a Capannelle il pubblico si entusiasma per Stand Inside Your Love, mentre quando arrivano i pezzi degli ultimi due dischi è come se scendesse una percepibile coltre di indifferenza) e poi il disco solista di Billy, dopo che James Iha e D’Arcy erano andati via; abbiamo visto il video di Honestly, la canzoncina singolo degli Zwan, il gruppone di metà anni Zero più fuori moda della storia (hei, non erano malaccio): e dietro mille arrampicate sugli specchi e ragionamenti contorti (non è che D’Arcy e Iha contavano più di quanto non dicessero i crediti in fondo alle copertine? Non è che la passione per un certo hard rock ha semplicemente preso il sopravvento?) siamo arrivati, dolorosamente, alla stessa conclusione a cui era giunta una signora romana appena uscita dal cinema dopo aver visto uno degli ultimi film di Pupi Avati. “S’è rincoglionito pure Pupi Avati”, disse la signora, e noi ammirammo la sua efficace sintesi.

Non per questo abbiamo smesso di ascoltare Cherub Rock (la suonano, a Capannelle, è l’ultima in scaletta. Durante il concerto intanto Corgan confessa il suo amore per l’Italia e dice che qualche suo parente sta per sposare un’italiana o un italiano).

Ma prima gli Smashing fanno Rocket e Thirty-Three. Nel mezzo, il dittico Disarm Tonight Tonight, pane duro pure per i più cinici (com’era quella storia? far palpitare le teste come i cuori?). E mentre inizia il giro di basso che porta a Bullet With Butterfly Wings, l’Amico in Versione Cinica commenta: “Ha fatto bene Kurt Cobain a suicidarsi” – si finisce sempre per parlare di Cobain. Perché è vero, mentre quello che resta degli Smashing esegue quella canzone lì, uno degli inni grunge e così via, non facendo granché per non trasmettere una sensazione da “Ragazzi, è solo una canzone, è sempre stata solo e soltanto una canzone, davvero”, sembra di essere improvvisamente reduci e lontanissimi da qualcosa – dall’adolescenza, a occhio e croce, ma non solo, se è vero che certi stati d’animo si proiettano in avanti per un tempo indefinito – e che tante canzoni, forse, servono a riportarci a quegli stati d’animo (e non è sempre un’esperienza piacevole).

“Non siamo mica nel 1996, lo sapevamo”, ribatte Una Persona Meno Cinica: e anche questo è vero, anzi, è più vero, è reale, come il tappeto di birre sotto i piedi e come gli iphone che ci ricordano quanto siamo lontani dal 1996 e gli aerei che continuano a volare accanto mentre Billy fa l’ultimo regalo e suona le prime tre canzoni da Gish, il primo album, il più innocente, quello con meno implicazioni, il più leggero: e ci ritroviamo a canticchiare le note dell’assolo di chitarra, quando sembra che il suono si stia avvitando verso il cielo – va bene così.


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